La Corte di Cassazione con la sentenza n. 19599 del 30.09.2016 dispone che non contrasta con l’ordine pubblico il  riconoscimento e la trascrizione nel registro dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa per aver la prima donato l’ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto; secondo la Corte deve essere data importanza primaria al principio di rilevanza costituzionale del superiore interesse del minore che si sostanzia nel suo diritto alla conservazione del suo status filiationis, validamente acquisito all’estero.
La questione esaminata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione riguarda il caso di una cittadina spagnola e di una cittadina italiana che avevano contratto matrimonio in Spagna e generato un figlio, il quale porta i cognomi di entrambe ed è cittadino spagnolo; nel certificato di nascita entrambe le donne risultano madri dal momento che l’una ha portato a termine la gravidanza e l’altra ha donato gli ovuli necessari per il concepimento mediante procreazione medicalmente assistita.
Le due madri, successivamente, chiedevano la trascrizione dell’atto di nascita in Italia ma l’Ufficiale di Stato Civile di Torino opponeva fermo rifiuto per ragioni di ordine pubblico. Dopo il loro divorzio avvenuto in Spagna sulla base di un accordo che prevedeva l’affidamento del minore ad entrambe e la condivisione della responsabilità genitoriale, le due signore, proponevano ricorso avverso il diniego dell’Ufficiale di Stato Civile.

Il Tribunale di Torino rigettava il ricorso ritenendo infondata la domanda di trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero perché contrastante con il principio di ordine pubblico in base al quale nell’ordinamento italiano madre è soltanto colei che ha partorito il bambino.
Le madri, in seguito, proponevano reclamo avverso il decreto del Tribunale.
La Corte di Appello di Torino accoglieva il reclamo ed ordinava all’Ufficiale di Stato Civile di Torino di trascrivere l’atto di nascita sulla base del diritto internazionale privato (art. 33 legge n. 218 del 1995) che rimette ogni determinazione su lo stato di figlio alla legge nazionale del figlio al momento della nascita. In sostanza secondo il diritto spagnolo, essendo il bambino figlio di una cittadina italiana, è anche cittadino italiano (ex art. 2 legge n. 91 del 5 febbraio 1992) per cui l’atto di nascita è trascrivibile nei registri di stato civile ai sensi art. 17 DPR del 3 novembre 2000 n. 396 (che disciplina la trascrizione degli atti formati all’estero e relativi ai cittadini italiani); inoltre la Corte d’Appello sottolinea come siano preclusi al giudice italiano accertamenti sulla validità di un titolo formato all’estero secondo la legge straniera.
Contro il decreto della Corte d’Appello presentavano ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Torino e il Ministero dell’Interno.
La Corte di Cassazione, nella presente decisione, in primo luogo osserva che sebbene l’atto di nascita del bambino, dal quale risulta figlio di due donne, sia valido per il diritto spagnolo, ai fini del riconoscimento in Italia del suo principale effetto, che è la costituzione di un rapporto di filiazione in Italia con la B. (donatrice dell’ovulo e, quindi, madre genetica), è necessario verificare se quell’atto è contrario all’ordine pubblico ex artt. 65 e 16 della legge n. 218 del 1995 e 18 del DPR n. 396 del 2000.
La Prima Sezione, in seguito, ripercorre l’evoluzione nell’interpretazione della nozione di ordine pubblico; negli anni ’30 del secolo scorso prevaleva una concezione statualista in quanto l’ordine pubblico era funzionale ad escludere l’applicabilità delle norme straniere contrastanti con i principi cui lo Stato non può o non crede di dover rinunziare ovvero con i sommi inderogabili canoni del nostro sistema positivo (Cass., sez. un., n. 1220 del 1964; n. 3881 del 1969). A questa concezione, nel tempo, se ne è opposta un’altra fondata su una maggiore partecipazione dei singoli Stati alla vita della comunità internazionale, la quale sempre meglio è capace di esprimere principi generalmente condivisi e non necessariamente tradotti in norme interne, così da sottrarre la nozione di ordine pubblico internazionale sia ad un’eccessiva indeterminatezza sia ad un legame troppo rigido con i mutevoli contenuti delle legislazioni vigenti nei singoli ordinamenti nazionali. Se l’ordine pubblico si identificasse con quello esclusivamente interno, le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto analogo a quelle italiane, cancellando la diversità tra sistemi giuridici e rendendo inutili le regole del diritto internazionale privato( cfr. Cass. n. 10215 del 2007, n. 14462 del 2000). Ricorda, inoltre, come anche la normativa comunitaria stessa esclude il riconoscimento delle decisioni emesse in uno Stato membro nei soli casi di manifesta contrarietà all’ordine pubblico ed afferma che i principi di ordine pubblico devono essere ricercati esclusivamente nei principi supremi e/o fondamentali della nostra Carta Costituzionale.
A riguardo la Corte Suprema afferma il principio di diritto per cui: il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l’ordine pubblico dell’atto di stato civile straniero (nella specie, dell’atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma della L. n. 218 del 1995, artt. 16, 64 e 65, e D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, deve verificare non già se l’atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
La Corte osserva, poi, come il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione esistente in Spagna influirebbe negativamente sul minore, nello specifico, nell’acquisizione della cittadinanza italiana, sui diritti ereditari, sul diritto di circolare liberamente nel territorio italiano e sulla facoltà di essere rappresentato dal genitore davanti alle istituzioni. Inoltre, in contrasto con l’art. 24 par. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, si violerebbe l’interesse del minore ad intrattenere relazioni e contatti con due genitori.
La Corte di Cassazione, nella presente decisione, afferma che delle conseguenze di tale comportamento, imputabile ad altri, non può rispondere il bambino che è nato e che ha un diritto fondamentale alla conservazione dello status legittimamente acquisito all’estero (v., intra, p. 10.3). Vi sarebbe altrimenti una violazione del principio di uguaglianza, intesa come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali.
I ricorrenti individuavano la fattispecie oggetto di giudizio in maternità surrogata poiché a rivendicare lo status di madre è una donna diversa da colei che ha partorito e sottolineavano come la sentenza della Corte Costituzionale n. 162 del 2014, che ha dichiarato incostituzionale il divieto incondizionato della fecondazione eterologa nelle coppie eterosessuali, non abbia inciso sui divieti per le coppie omosessuali di fare ricorso alle pratiche di procreazione medicalmente assistita.
La Corte, nel presente giudizio, ritiene tali argomentazioni dei ricorrenti errate; il caso trattato non è assimilabile alla surrogazione di maternità poiché, nel caso di specie, non vi è una donna che utilizza il corpo di un’altra donna nell’intento di avere un figlio ma vi è la presenza di una signora che ha portato a termine una gravidanza sulla base di un progetto genitoriale di coppia con la sua partner e moglie la quale, a sua volta, ha donato l’ovulo che ha consentito il concepimento del bambino.
Nel proseguo della sentenza la Prima Sezione ricostruisce il pensiero del legislatore che, con la legge n. 40 del 2004, non consente alle coppie dello stesso sesso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (art. 5) prevedendo per la violazione una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 12, 2 c) e che vieta la surrogazione di maternità e commercializzazione di gameti o di embrioni (art. 12, 6 c) prevedendo una sanzione penale detentiva verso chiunque le realizza, organizza o pubblicizza.
A tal riguardo nella presente decisione la Corte afferma il seguente principio di diritto: l’atto di nascita straniero (valido, nella specie, sulla base di una legge in vigore in un altro paese della UE) da cui risulti la nascita di un figlio da due madri (per avere l’una donato l’ovulo e l’altra partorito), non contrasta, di per sé, con l’ordine pubblico per il fatto che la tecnica procreativa utilizzata non sia riconosciuta nell’ordinamento italiano dalla legge n. 40 del 2004, la quale rappresenta una delle possibili modalità di attuazione del potere regolatorio attribuito al legislatore ordinario su una materia, pur eticamente sensibile e di rilevanza costituzionale, sulla quale le scelte legislative non sono costituzionalmente obbligate.
La Suprema Corte, nel seguito, non condivide nuovamente la posizione dei ricorrenti i quali ritengono che l’art. 31, 2 c. della Costituzione tuteli solo la maternità che si manifesti con il parto e che sia, invece, irrilevante giuridicamente la trasmissione del patrimonio genetico anche se scaturito da una scelta di vita responsabile. A tal riguardo la Prima Sezione richiamando il secondo comma dell’art. 269 c.c. che stabilisce che la prova della paternità e maternità può essere data con ogni mezzo afferma che la prova del parto non costituisce l’unica prova ammissibile al predetto fine, potendo, in mancanza di quella dimostrazione, la prova della filiazione essere data con ogni altro mezzo, anche presuntivo, ed in particolare attraverso altra sentenza civile o penale da cui la maternità indirettamente risulti, salva restando la prova contraria da parte del controinteressato (cfr. Cass. n. 1465 del 1983).
Dopo aver passato in rassegna, tra le altre, diverse decisioni della Corte Edu, della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione federale tedesca e della Corte di Cassazione francese, la Suprema Corte nel presente giudizio, enuncia il principio di diritto per cui la regola secondo cui è madre colei che ha partorito, a norma dell’art. 269 c.c., comma 3, non costituisce un principio fondamentale di rango costituzionale, sicché è riconoscibile in Italia l’atto di nascita straniero dal quale risulti che un bambino, nato da un progetto genitoriale di coppia, è figlio di due madri (una che l’ha partorito e l’altra che ha donato l’ovulo), non essendo opponibile un principio di ordine pubblico desumibile dalla suddetta regola.
In definitiva, la Corte di Cassazione sostiene che non esiste un principio costituzionale fondamentale di ordine pubblico che possa impedire la trascrizione di un atto di nascita in ragione di un’asserita preclusione ontologica per le coppie formate da persone dello stesso sesso (unite da uno stabile legame affettivo) di accogliere, di allevare e anche di generare figli.
Difatti, se l’unione tra persone dello stesso sesso è una formazione sociale ove la persona “svolge la sua personalità” e se quella dei componenti della coppia di diventare genitori e di formare una famiglia costituisce “espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi” delle persone, ricondotta dalla Corte costituzionale (sent. n. 162 del 2014, p. 6, e n. 138 del 2010, p. 8) agli artt. 2, 3 e 31 Cost. (e, si noti, non all’art. 29 Cost.), allora deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli. Infatti, “il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti tra i coniugi e figli (…) identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri” (v. Corte cost. n. 166 del 1998): di conseguenza, l’elemento di discrimine rappresentato dalla diversità di sesso tra i genitori – che è tipico dell’istituto matrimoniale – non può giustificare una condizione deteriore per i figli né incidere negativamente sul loro status.